Tra questi ricordi, il Porticciolo Nazario Sauro occupa un posto importante, privilegiato, in quanto parte integrante della nostra giovinezza, lì abbiamo imparato a pescare e ad ascoltare chi della vitane sapeva più di noi e ci trasmetteva le sue esperienze, noi ascoltavamo attenti, consapevoli di quanto importante fosse assimilare l’arte e la capacità di vivere ed integrarsi con il mare, con il vento, annusando la bunana o il tempo ideale per proficue battute di pesca. Così, prima di passare alla storia del Porticciolo, ritengo utile parlare di “Prima”. Le cronache, quasi tutte verbali, ci dicono che alla fine dell’Ottocento la nostra Livorno era una delle realtà balneari più famose, la prima a lanciare in Italia la moda dei bagni naturali con acqua marina, dotandosi di strutture organizzate, capaci, per la bellezza del luogo e l’eleganza proflisa, di attirare la nobiltà del tempo, curiosa, come sempre, di qualsiasi novità. Nel 1781, Paolo Baretti, console di Sua Maestà il Re di Sardegna, ottenne l’autorizzazione di realizzare il primo stabilimento balneare davanti alla Spianata dei Cavalleggeri (oggi Terrazza Mascagni) che, nell 783, prese il nome del suo primo proprietario “Rombolino”, per assumere in seguito il nome RInaldi e quello defmìtivo, t’amo- so almeno per due secoli, di “Bagni Trotta”.
Per quanto riguarda invece lo “Scoglio della Regina”, limitrofo allo specchio d’acqua dove si trova oggi il Moletto “Nazario Sauro”, vicino alla Porta a Mare, che si apriva alla spiaggia chiamata dei Mulinacci, va detto che nell 806, la Regina d’Etruria, moglie di Lodovico di Borbone, scoperte le proprietà idroterapeutiche dei bagni di acqua di mare, fece scavare sullo scoglio maggiore una vasca alimentata da quattro canalette. Lei, la più nobile delle nobildonne della Toscana, vi si recava con la corte e, protetta da occhi indiscreti, si immergeva nel tepore dell’acqua salmastrosa e pura. Per questo, il luogo venne battezzato “Scoglio della Regina”. Nel 1846, invece, il dottor Carbone Squarci, ebbe la concessione e l’autorizzazione per costruire uno stabilimento balneare in muratura, con palazzetta unita alla terraferma da un ponte a sei arcate, in un lungomare impreziosito dalla realizzazione dei primi edifici in stile tipico, ifi un complesso nobile e ben curato, raffigurato in numerose cartoline destinate ad illuGli strare la bellezza di Livorno in Italia e nel mondo. Nella stagione estiva, sui lidi livomesi venivano a stabilirsi Re e Regine, Principi e nobili, poeti ed artisti. Dopo la Regina Maria Luisa, a Livorno e sullo Scoglio della Regina, vennero Maria Luisa, arciduchessa s’Austria, vedova di Napoleone il Grande e sorella del Granduca di Toscana, Ferdinando III di Lorena, Amedeo d Savoia, letterati come Alessandro Manzoni, Alessandro Dumas padre, ultimamente sepolto nel Pantheon di Parigi, tra i Grandi di Francia, George Byron, Percy Bisshe Shelley e, in tempi successivi, Aldo Palazzeschi, che ci ricorda la bella commedia toscana “Le sorelle Materassi”, mentre frequentatori assidui dei bagui erano Dario Niccodemi, Sabatino Lopez, Giovanni Marradi e Dino Campana, nei più begli tra i momenti della sua tormentata storia d’amore con Sibilla Aleramo. A chi soffriva di asma, i medici consigliavano l’aria salsoiodica di Livorno, particolarmente nei

1940 un tuffo al moletto
mesi invernali e fra le tante persone illustri che si servivano di questa terapia, il grande Guglielmo Maruoni che, seguì la suddetta cura frequentando nella nostra Livorno le scuole medie. Il Moletto “Nazario Sauro” venne costutuito nel 1925 e nel ‘30 fu portato a termine. Per quei tempi era un’opera molto importante, preziosa per i pescatori, per gli avventurieri che correvano il mare in cerca dì guadagni e per i diportisti, all’epoca molo possibile soltanto alla gente ricca. La costruzione era comunque indispensabile per risolvere l’esigenza dei facoltosi clienti abituali dello Scoglio della Regina, di avere a disposizione un attracco prospiciente lo stabilimento balneare cIa essi frequentato. Un’opera della quale si fece vanto il regime fascista che aveva portato a termine l’opera pensando esclusivamente ad eventi bellici, ma non solo, perché il G.R.A. “Mussolini” di via dei Prati, oggi via Mayer, ospitava l’equipaggio dei vogatori del San Jacopo e si accaparravano ormeggio e uno stipetto nel “Moletto” per il gozzo del rione. Fino ad allora le attrezzature del gozzo e dei vogatori venivano poste in un locale di via dei Funaioli, dove si recavano dopo gli allenamenti. Ben presto il porticciolo divenne meta di tutti i pescatori della città, anche perché qui potevano trovare una barca a noleggio per recarsi a pescare i paraghi. Il noleggiatore, era una figura tipica del Moletto e personificava il vero lupo di mare. Si chiamava Baccigalupo, ma tutti lo conoscevano come il “Campanaro”, per il suo andamento dondolante. Per noi giovani il porticciolo era molto pescoso, ghiozzi, mugginetti, gamberi, anguille, triglie e frutti di mare. La pesca veniva effettuata con pezzi di grondaia, barattoli e mattoni forati, in sostituzione delle nasse. Le lenze non dovevano essere più lunghe di due metri, le correntine a mano venivano 3 fatte con il crine dei cavalli. Dice Mario Del Preda: prendevamo un paio di forbicione da casa, ci si piazzava dietro i barrocci e, zac, un pezzo di coda veniva tagliato e, via. Una volta in via Funaioli c’era un barroccio fermo davanti alla bottega di Nello il lattaiolo. Mi piazzai dietro e tagliai, ma il taglio fu troppo profondo e il cavallo, a causa del dolore, si imbizzarrì cominciando a correre come un disperato, provocando sconcerto e paura. Ce ne volle per fermarlo e il barrocciaio cerca ancora il “maledetto bastardo” che aveva tagliato la coda al suo cavallo infilzandolo nel posteriore.
Quando il libeccio infuriava e non potevamo che restare all’interno del “Moletto”, il tipo di pesca praticato era quello a eee. “mazzacchera”, vittime le anguille: una canna dura di due metri calata sotto banchina, mentre uno di noi sbatteva la superficie dell’acqua, facendo schizzare le anguille a riva; li trovavano un bel boccone che ingoiavano flulmineamente per farsi tirare a secco. Il mare nel porticciolo e tùori era molto pescoso all’epoca e la varietà dei pesci che l’abitavano, era assai numerosa, tanto da spin gerc a ripetere ancora le sp ci di pesci che guizzavano tra le barche, anche per la penu ri di questi tempi: gamberi, margherite, muggini, granchi e altri molluschi. All’Idroscalo, invece, in quegli anni si pote van pescare dei bei lupicanti e non uno ogni tanto. Le “orti’ole” erano apprezzate in sommo grado dai veri pescatori ed erano squisite dorate e fritte in padella. Uno dei pescatori più famosi di “frignolo”, autentica arte della pesca in notturna, era Silvano Mimbelli, abilissimo come nessun altro anche nella pesca dei ricci “frignolo”, il cui nome deriva dallo sfrigolio che usciva dal beccuccio del lume a carburo, meriterebbe un capitolo a parte e chi lo praticava era senz’altro un vero conoscitore del mare. Scanzo, meglio conosciuto come “il maresciallo”, era stato per molti anni guardia penitenziaria nella colonia penale di Gorgona, un autentico paradiso per i pescatori. In quelle acque aveva sperimentato vari tipi di pesca, ma il suo forte era la trama alle lecce con l’aguglia viva, esca di indubbia attrattiva per questi pesci abbondanti nel nostro mare. Il “maresciallo” ebbe una parte importante nell’ampliamento del “calpestato” del porticciolo e per la costruzione dello scalo di alaggio, che permetteva ai pescatori di mettere a terra le barche ed effettuare il carenaggio ed altre operazioni indispensabili per una manutenzione adeguata, valida oggi per le barche di plastica, figuriamoci quando erano in legno. La pesca a trama veniva effettuata a remi, sia per le occhiate che per i sugarelli ed era molto faticosa. Ricordo bene un certo Filippi
con le sue cannuccie dotate di campanellini che lo avvertivano quando l’occhiata abboccava. Una pesca semplice, semplice, ma il Filippi, abile e sperimentato, rientrava sempre al Moletto con un secchio contenente molte occhiate. Le correntine, invece, avevano il filo di crine dei cavalli. Le giunte erano a treccia, mentre il gancio veniva fissato ad un terminale di 20 cm di cordino ritorto con diametro di 3 mn-i e 3/4 fili, secondo la profondità del fondale da raggiungere.
Dove si pescava a quei tempi? Anche all ‘interno del Moletto, ma era molto pescoso lo specchio d’acqua dove poi furono realizzati i Bagni Nettuno e la costa vicina, anche la Bellana. Ricco di pesce e fauna marina era il mare intorno al Faro e all’Idroscalo. L’Idroscalo era un’attrazione incredibile; le grandi ali, la fusoliera massiccia, i panciuti pattini, quegli splendidi aerei ammaravano o decollavano offiendo uno spettacolo bellissimo. Qualche velivolo, è precipitato in mare. Questi aerei erano famosi per le trasvolate atlantiche di Italo Balbo, ucciso dalla contraerea italiana sul cielo della Libia di cui era governatore (si dice fosse stato fatto uccidere da Mussolini). Una volta morirono i sette uomini dell’equipaggio di un aereo precipitato proprio davanti al porto. In un’altra caduta gli aviatori si salvarono e molte tra le barche accorse al salvataggio erano uscite dal Moletto “Nazario Sauro”. Altro tipo di pesca praticata “in casa” era quella con le “gallette”, sugheri rotondi di 7, 8 centimetri a cui venivano legati due braccioli di cordino ritorto con gli ami pendenti accanto ad una fetta di pane. I muggini arrivavano, si precipitavano sul pane e mangiavano rapidi, per guizzare subito indietro e nel farlo rimanevano irrimediabilmente agganciati all’acciaio degli ami. Bastava calare il retino e il muggine era nostro. Il sughero costava e lo sostituivamo spesso con le lampadine bruciate. La pesca al frignolo, oggi vietata, invece, veniva effettuata con una torcia a fiamma tenuta in una mano rivolta verso l’alto, mentre nell’ altra mano si teneva una fiocina. Il pesce, attirato dalla luce, dapprima prodotta con un lume a carburo, poi con una bomboletta di pibigas, saliva come affascinato, rimanendo imbambolato e il pescatore aspettava il momento giusto per inlirzarlo. Ci voleva una abilità a tutta prova, perché bastava un movimento anche appena accermato, per rompere l’incantesimo e farlo sparire. Una pesca appassionante, faticosa, dove l’occhio doveva avere riflessi fhlminei, comunque di grande fascino e forza, la più dotata di attrattiva per gli amanti della pesca. La pesca alla seppia era fatta con una femmina che attinva i maschi incapaci di staccarsi dal richiamo e quando era il momento giusto, si calava il retino e la seppia maschio era catturata. Uno scherzo spirtoso quanto mai era la sostituzione della femmina con un maschio. Il malcapitato, ignaro della burla, stava tutta la notte in mare e non riusciva a prendere assolutamente niente. Immaginiamo gli sfotto.Mario Del Preda